Collezione: LUDOVICA PIEPOLI

Ludovica Piepoli o dell’evocazione come trappola gentile

Guardare un’opera di Ludovica Piepoli è come inciampare in una poesia che non voleva essere letta.
Qualcosa che pulsa piano, come un cuore che si vergogna a battere troppo forte. Un sussurro visivo, ma carico come un temporale: se non ascolti, non succede nulla. Se ti fermi, ti entra dentro.

Le sue immagini sono veli che nascondono macigni.

Evoca colori, messi lì non per riempire, ma per aspettare che qualcosa (o qualcuno) ci precipiti dentro.

Una trappola estetica, gentile.
Ti accoglie con un’estetica leggera, perfino decorativa, poi ti soffia in gola la polvere del non detto.

Portali verso l’inconscio L’ossessione metafisica del silenzio cromatico rothkiano declinato nell'ultra-contemporaneità. Una carezza sullo sterno prima di affondare il colpo.
Rothko ti guarda crollare, Ludovica ti osserva mentre inizi a tremare.

Non l’impatto, ma il riverbero.
Le sue opere non ti chiedono di capire, di restare. Come con certi amori silenziosi, quelli che ti sfiorano appena ma non se ne vanno più.